di Donato Bonanni
L’innovazione tecnologica e la digitalizzazione hanno radicalmente cambiato il nostro modo di vivere, ma soprattutto il nostro modo di lavorare contribuendo al raggiungimento di alcuni obiettivi di sostenibilità non solo ambientale, ma anche economica e sociale, a beneficio di tutta la comunità.
Pensiamo alle aziende che ricorrono al lavoro agile (per i propri collaboratori) e riducono, di conseguenza, i costi fissi (ad esempio il ridimensionamento degli spazi di lavoro e la riduzione delle bollette luce) o ai smart workers che risparmiano sui costi di trasporto e sul tempo di trasporto da e verso il luogo di lavoro o alla città più pulita e meno rumorosa grazie alla riduzione della Co2 e a quella del traffico.
Ma cos’è lo smart working?
È una filosofia di lavoro incentrata sull’autonomia e flessibilità concessa al lavoratore nello scegliere il luogo, l’orario di lavoro e gli strumenti da utilizzare, a fronte di un piano obiettivi (concordato con il management) da raggiungere entro un periodo determinato e si caratterizza anche per il passaggio da un lavoro orientato al presenzialismo e al controllo, ad uno orientato alla fiducia, alla collaborazione e alla responsabilità.
In Italia questa modalità organizzativa (diversa dal telelavoro) è stata introdotta con la legge n° 81-2017 ed è una pratica sempre più diffusa soprattutto nelle grandi organizzazioni aziendali.
In particolare, diverse multinazionali del settore alimentare, energetico e bancario-assicurativo avevano già sperimentato (dietro accordi collettivi sottoscritti con le rappresentanze sindacali) lo smart working, attivando gli strumenti-processi e le competenze tecnologiche ai propri collaboratori per incrementare la produttività e migliorare l’efficienza della prestazione di lavoro. All’indomani della pandemia, le imprese (soprattutto quelle medio-piccole) e la Pubblica amministrazione hanno dovuto applicare con urgenza il lavoro agile in modo continuativo.
C’è, però, da chiedersi se il ricorso “forzato” da parte delle stesse a questa modalità sia esattamente quella disciplinata dalla legge n° 81-2017, o sia qualcosa di diverso.
Innanzitutto, lo smart working consiste in una prestazione lavorativa effettuata in un arco temporale definito (orario di lavoro giornaliero) senza vincoli né di tempo, né di luogo (può essere svolto ovunque). In secondo luogo, questa forma flessibile prevede l’alternanza tra momenti di lavoro smart e presenza presso la sede lavorativa.
Infatti, la legge n° 81-2017 ha precisato che qualunque siano le modalità organizzative del lavoro agile debba essere previsto un rientro del lavoratore in sede per confrontarsi direttamente con i propri responsabili e per socializzare con i colleghi.
Insomma, molte imprese e diverse realtà della pubblica amministrazione hanno adottato lo smart working “emergenziale” che non è molto distante dal telelavoro: la mobilità e il rientro in ufficio sono ostacolate dalle disposizioni di carattere generale legate all’emergenza sanitaria. Ma non va sottovalutato anche il fatto che le stesse hanno cercato di improvvisare il lavoro agile, chiedendo alle persone di lavorare da casa, pur senza averne la cultura, gli strumenti e le competenze.
Ma dopo il Coronavirus, possiamo immaginare un lavoro agile diverso, equilibrato e accessibile per tutti i lavoratori?
Le aziende, le pubbliche amministrazioni e la società nel suo insieme devono cogliere l’opportunità di rivedere alla luce di questa esperienza il modo di organizzare processi produttivi, spazi, modelli di vita (conciliazione lavoro-famiglia) e lavoro e tenere in considerazione un aspetto molto importante della nostra vita: il lavoro (qualunque esso sia) ha una dimensione sociale.
Anche laddove non fosse forzato, uno smart working rilevante fa perdere la dimensione umana dei rapporti di lavoro e il senso di appartenenza all’azienda.
FONTE: Pubblicato su: L’opinione delle Libertà il 12 maggio 2020