Draghi al Colle o al governo? Due soluzioni che hanno a comun denominatore l’impreparazione dei partiti davanti all’”uomo solo al comando”
Dopo l’insediamento del governo gialloverde nel mese di giugno 2018, erano in molti ad immaginare che la tenuta di quell’inedita compagine parlamentare non sarebbe durata a lungo. Ma nessuno poteva immaginare che nel corso della prima parte della legislatura si sarebbero avvicendati tre esecutivi sostenuti da maggioranze parlamentari inedite, caratterizzate da motivazioni e obiettivi di segno opposto.
L’emergenza sanitaria ha certamente condizionato lo sviluppo degli eventi, mettendo a nudo l’incapacità di affrontare gli eventi drammatici con un’adeguata coesione nazionale.
Ma è illusorio pensare che le motivazioni sottostanti il declino economico e sociale della nostra nazione, certificato dal progressivo disallineamento della crescita del reddito e dell’occupazione nel corso degli anni duemila rispetto alla media dei Paesi aderenti alla Ue, siano state adeguatamente metabolizzate da una classe dirigente politica che continua a rimanere appesa alla figura di Mario Draghi nella veste dell’“uomo della provvidenza” (per mano di Mattarella).
In un recente articolo ci siamo permessi di evidenziare come la sostanziale disponibilità manifestata dal presidente del Consiglio nel corso della recente conferenza stampa, di prendere in considerazione un’eventuale candidatura per la presidenza della Repubblica, contrapposta al desiderio espresso dalla maggioranza delle forze politiche che sostengono l’esecutivo di volerlo mantenere nell’attuale incarico, siano entrambe il frutto della preoccupazione di rimanere in mezzo al guado per opposte motivazioni. Per il comprensibile desiderio del presidente del Consiglio di capitalizzare il meritato consenso riscontrato in ambito nazionale e internazionale, destinato probabilmente a diminuire nell’immediato futuro per l’obiettiva difficoltà di portare a regime le annunciate riforme strutturali. E per l’oggettiva impossibilità delle forze politiche, comunque coalizzate, di ereditare il lavoro avviato dal governo in carica senza la Sua guida, e di garantire il rispetto dei vincoli assunti in ambito europeo per la gestione delle risorse del Pnrr.
La legislatura era iniziata con l’inedita costituzione di un governo gialloverde sulla base di un programma esplicitamente ostile agli orientamenti delle istituzioni europee, con politiche economiche e sociali di stampo statalista e assistenzialista, orientato alla liquidazione degli apparati politici e tecnocratici ereditati dal passato. Un’esperienza rapidamente esaurita per la palese inconsistenza, e incompetenza, della nuova classe dirigente. Lo scioglimento delle Camere è stato evitato grazie all’improvvisato coinvolgimento del Pd nell’ambito di un governo nato per la dichiarata volontà di impedire le nuove elezioni e un probabile insediamento di un governo di centrodestra guidato da Salvini e per il proposito di condizionare l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.
Nel giro di 30 mesi si è messa la parola fine alla stagione della seconda Repubblica, e al velleitario tentativo di restaurarla. Emblematico il fatto che la chiusura del cerchio avvenga con la designazione nell’incarico di presidente del Consiglio di Mario Draghi, l’autore della lettera del 2011 firmata nella veste di presidente della Bce che evocava l’esigenza di adottare le famigerate politiche di austerità, per dare vita ad un governo sostenuto dalla Lega e dal M5s.
Per conseguire questo obiettivo, diventa necessario porre rimedio a tre squilibri: l’arretratezza di una quota rilevantissima dell’apparato produttivo, in particolare dei comparti dei servizi; il basso tasso di occupazione della popolazione in età di lavoro; la concentrazione di questi ritardi nei territori del Mezzogiorno. Squilibri aggravati, per ragioni facilmente comprensibili, da quello più generale legato all’invecchiamento della popolazione, in forte accelerazione nei prossimi 15 anni. Un’evoluzione destinata a complicare la gestione delle transizioni tecnologiche delle imprese e dei costi sociali delle persone che dovranno cambiare lavoro.
Queste evidenze vengono scientemente ignorate da una buona parte della classe dirigente politica. La messa a disposizione di un’ingente mole di risorse europee viene interpretata come un’ammissione postuma del fallimento delle politiche di austerità. L’alibi perfetto per trascurare l’esigenza di ottimizzare la gestione delle risorse interne e di contenere una deriva della spesa assistenziale che si è raddoppiata nel corso degli ultimi 10 anni. Nell’insieme si trascura il fatto che l’utilizzo di queste risorse rimane condizionato da vincoli europei che non hanno precedenti, tali da far impallidire quelli del Mes. E dal ripristino delle regole del Patto di stabilità, auspicabilmente riformate, che torneranno in vigore dal 2023.
L’elezione del nuovo presidente della Repubblica mette fine all’equivoco rappresentato da un Governo che viene interpretato dai principali partiti come una parentesi necessaria per consentire agli stessi di riportare successivamente il confronto politico sulla contrapposizione tra i (presunti) fronti progressista e conservatore.
L’eventuale elezione di Mario Draghi a presidente della Repubblica, per le affermazioni rilasciate dall’interessato, dipende dalla continuità delle politiche avviate dal suo governo e della maggioranza che lo sostiene.
La riconferma nella carica di presidente del Consiglio, per l’evidente necessità di conservare l’autorevolezza dell’esecutivo in ambito nazionale e internazionale, comporta l’apertura di una riflessione sul ruolo di Mario Draghi anche per la prossima legislatura, come presa d’atto della sostanziale impossibilità di dare vita a coalizioni stabili per il Governo del paese. Una valutazione destinata ad influenzare anche una riforma della legge elettorale in senso proporzionale per favorire una convergenza dei gruppi parlamentari eletti verso questo obiettivo.
La prospettiva del taglio di un terzo del numero dei parlamentari, derivante dall’attuazione della riforma costituzionale, rafforza la probabilità di completare la legislatura fino alla scadenza ordinaria. Ma la probabilità per molti parlamentari di non essere ricandidati dai partiti di appartenenza è destinata a provocare un ulteriore aumento dei cosiddetti “cambi di casacca” che hanno già conseguito il record storico nel corso di questa legislatura, con riflessi destinati ad aumentare l’instabilità dei lavori delle Camere.
Tutti fattori che concorrono in via di fatto alla formazione di una sorta di partito trasversale favorevole a utilizzare il prestigio di Mario Draghi per garantire la governabilità delle istituzioni, mettendo in crisi le attuali formazioni politiche.
Ma l’uomo solo al comando, in assenza di una classe dirigente che sappia farsi carico dell’esigenza di rigenerare le forze produttive del nostro paese e di tutelare in modo condiviso gli interessi nazionali, rischia di essere peggiore del male. Senza corpi intermedi in grado di interpretare, e rappresentare, non si rischia la deriva autoritaria paventata da alcuni autorevoli commentatori, ma un ulteriore degrado della coesione sociale della comunità nazionale.
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