Articolo di Riccardo Frattini – Responsabile “Lavoro e Imprese” di Ripensiamo Roma – 06 giugno 2022 –
Si fa un gran parlare del tema del salario minimo, complice l’inflazione galoppante che preoccupa per la possibile diminuzione sensibile del potere d’acquisto delle famiglie.
Se ne parla in Europa, dove la Commissione europea è in procinto di approvare stanotte l’istituzione di un salario minimo dell’Unione, che va verso la direzione di ampliare fondamentalmente il raggio di applicazione della contrattazione collettiva.
In Italia si sta discutendo, invece, dell’adozione di un salario minimo legale interno e avevo già espresso sul giornale Domani la mia perplessità sulla necessità in Italia di scalzare la lunga tradizione di contrattazione collettiva settoriale che ci caratterizza con un salario minimo legale deciso, in definitiva, arbitrariamente da qualche – magari anche illuminato – funzionario ministeriale.
Invece l’idea sembra aver riscosso un gran successo politico, dato che il segretario della CGIL Landini ha espresso stamattina la sua netta propensione per il sì e lo hanno seguito pressoché tutte le forze politiche di centrosinistra, dal M5S al PD a Calenda.
È utile ricordare che, ad oggi, in molti Stati dell’Unione la tutela di un salario minimo deriva da disposizioni legislative, con l’apporto successivo e integrativo dei contratti collettivi, mentre solo in 6 Stati (Danimarca, Italia, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia) essa viene fornita esclusivamente mediante contratti collettivi.
Dall’analisi quantitativa effettuata dalla Commissione europea, un aumento ipotetico dei salari minimi fino al 60 % del salario lordo mediano migliorerebbe l’adeguatezza dei salari minimi in circa la metà degli Stati membri: un numero di lavoratori compreso tra 10 e 20 milioni trarrebbe vantaggio da tali miglioramenti.
Tali miglioramenti avrebbero certamente ripercussioni positive anche in materia di incentivi al lavoro, nonché in relazione al sostegno alla parità di genere, e contribuirebbero a ridurre il divario retributivo di genere dato che le donne costituiscono la maggioranza dei lavoratori che percepiscono un salario minimo (il 60 % circa nell’UE).
Che quindi garantire un’esistenza libera e dignitosa mediante un salario sotto il quale non si possa scendere sia una cosa buona e giusta, nessuno lo nega. In discussione, quindi, c’è solo il come.
In Italia questo obiettivo è stato sempre perseguito sino ad oggi dalla contrattazione collettiva e dalla sua capacità di ottenere mediante la negoziazione un aumento progressivo dei salari, che tuttavia è costantemente soggetto al confronto con le aziende settore per settore.
Gli uomini, infatti, sono tutti uguali ma non lo sono i settori produttivi, nei quali talvolta il margine operativo lordo è molto basso e l’aumento del costo del personale può significare la fine di un’impresa.
Inoltre, stabilire per legge un salario non significa che quel salario sarà dignitoso e la stessa Commissione europea afferma che, nel 2018, in nove Stati membri il salario minimo legale addirittura non costituiva, per un singolo lavoratore che lo percepiva, un reddito sufficiente a raggiungere la soglia di rischio di povertà.
Al contrario, negli Stati membri in cui la tutela garantita dal salario minimo è fornita solo mediante contratti collettivi, la Commissione stima che la percentuale di lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva vari tra il 2 % e il 55 % del totale dei lavoratori e l’Italia si colloca certamente nella parte bassa di questa forbice, dato che la contrattazione ha nel nostro paese una copertura superiore al 90% grazie ad un collaudato sistema di incentivi all’applicazione.
Non sempre quindi nessun salario minimo significa tanta povertà ed, anzi, al contrario, i dati dimostrano che gli Stati membri caratterizzati da un’elevata copertura della contrattazione collettiva tendono ad avere una bassa percentuale di lavoratori a basso salario con salari minimi elevati rispetto al salario mediano.
Il pacchetto della Commissione proprio per questo motivo chiede a tutti gli Stati membri di sostenere la contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari, in particolare nei casi in cui la copertura della contrattazione collettiva è bassa, nonché di rafforzare l’applicazione dei salari minimi e il monitoraggio della loro adeguatezza e copertura.
La Commissione, inoltre, considera prioritario il fine di aumentare la copertura della contrattazione collettiva, e chiede agli Stati di promuovere lo sviluppo e il rafforzamento della capacità delle parti sociali di partecipare alla contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari a livello settoriale o intersettoriale e incoraggiano negoziazioni costruttive, significative e informate sui salari tra le parti sociali.
Appare strano che qualche sindacato si dica di opinione contraria, perché ai miei occhi questo significa sventolare bandiera bianca, ammettere che i sindacati hanno perso la loro capacità di rappresentare i lavoratori e che hanno costantemente bisogno del braccio armato dello stato per ottenere qualche progresso.
Se proprio ne hanno bisogno, tuttavia, come ha sostenuto anche una voce intelligente, dovrebbero invocarla con il metodo previsto espressamente dalla Costituzione a tale scopo: l’art. 39 della Costituzione, infatti, prevede già un metodo per stabilire un salario minimo legale dando efficacia generale alla contrattazione collettiva.
Questo metodo però piace poco ai sindacati, che non amano farsi contare gli iscritti, e preferiscono che lo Stato faccia da solo stabilendo per legge un numero (sia esso 7, 9 o 10 euro l’ora), di cui loro possano fregiarsi con la stampa.
È un gioco a ribasso, ben triste, e che non porterà nulla di buono.