Articolo di Natale Forlani pubblicato il 13 luglio 2022 su “Il Sussidiario.net”
Ieri si è tenuto un incontro tra Governo e sindacati dedicato principalmente alla questione salariale, vista l’alta inflazione che erode il potere d’acquisto.
Con l’incontro di ieri con Cgil, Cisl e Uil prende corpo il confronto tra il Governo e le parti sociali destinato a condizionare i contenuti della Legge di bilancio che sarà confezionata nel mese di settembre p.v.. La scommessa dell’Esecutivo è quella di costruire un ragionevole consenso intorno alle misure finalizzate a contenere gli effetti della crescita dell’inflazione sui salari e sui redditi delle famiglie senza compromettere i margini di crescita dell’economia che, seppur ridotti rispetto alle previsioni di inizio anno, continuano a essere manifesti. L’ipotesi di pervenire a un’intesa organica ispirata alla politica dei redditi messa in campo dal Governo Ciampi nel 1993 non è mai decollata. Ma anche un accordo più delimitato, sebbene a geometria variabile con le rappresentanze del lavoro, consentirebbe all’Esecutivo di facilitare il percorso per l’approvazione della Legge di bilancio esposta alle evidenti fibrillazioni in atto tra le forze politiche dell’attuale maggioranza parlamentare.
I temi oggetto del confronto sono molteplici, ma l’attenzione primaria rimane concentrata su quelli relativi alle politiche salariali, suddivisi tra i provvedimenti urgenti rivolti a salvaguardare il potere di acquisto dei salari messo alla dura prova della crescita dei prezzi, con il concorso di un intervento pubblico rivolto a ridurre il cuneo fiscale sulle retribuzioni lorde e del rinnovo dei contratti collettivi già scaduti. E di alcune innovazioni, come l’introduzione del salario minimo legale, destinate a condizionare la struttura delle politiche salariali anche per il futuro. Su questi temi saranno convocati degli incontri specifici a partire dal 23 luglio p.v.
L’intervento sul cuneo fiscale, con la riduzione del prelievo Irpef sulle retribuzioni o di una quota dei contributi sociali a carico dei lavoratori, potrebbe consentire un aumento delle retribuzioni nette in grado di compensare il differenziale negativo tra l’inflazione reale, che viaggia a un ritmo superiore all’8%, e gli aumenti contrattuali già previsti o da programmare con l’indicatore Ipca (indice dei prezzi depurato dagli aumenti dei costi dell’energia importata) stimato dall’Istat sul 4,7%. Per questa finalità il Governo si è reso disponibile a impegnare 5 miliardi di euro, tendenzialmente finalizzati a ridurre il prelievo dell’Irpef sui redditi medio bassi. Una misura di carattere provvisorio, sostitutiva dei 200 euro mensili di sostegno una tantum per i salari erogati nei due mesi recenti, e aggiuntiva ai provvedimenti messi in campo per calmierare i prezzi finali dei carburanti e delle bollette energetiche (circa 33 miliardi) che il Governo si è impegnato a prorogare anche per i prossimi mesi.
La proposta di un intervento di tipo strutturale di 16 miliardi avanzata dalla Confindustria (due terzi a favore dei lavoratori e un terzo per le imprese), da finanziare con una parte dell’extra gettito fiscale registrato nella prima parte dell’anno in corso, non viene presa in considerazione per l’impatto dei mancati contributi sociali sulla sostenibilità del sistema previdenziale.
Detto ciò, l’ipotesi prevalente presenta a sua volta una serie di criticità. L’impatto potrebbe essere modesto, dato che le imposte effettivamente pagate dai redditi medio bassi risulta nullo o di importo limitato, al netto delle detrazioni fiscali, per circa 15 milioni di contribuenti. Questa evidenza ha già indotto il Governo e il Parlamento a ridurre dello 0,8% la quota dei contributi sociali pagati dai lavoratori con i redditi inferiori ai 35 mila euro, per contribuire ad aumentare i salari netti con la recente riforma fiscale approvata nell’ambito della Legge di bilancio 2022.
Il rinnovo dei contratti già scaduti, ovvero l’ulteriore integrazione salariale per quelli già rinnovati sulla base di una previsione più contenuta dell’inflazione, rimane una condizione indispensabile per ottenere l’obiettivo. Circa la metà dei lavoratori privi del rinnovo del contratto, complessivamente circa 6 milioni, sono dipendenti pubblici per i quali l’impegno a rinnovare gli accordi deve essere assunto in presa diretta dal Governo. La restante quota è prevalentemente concentrata nei comparti dei servizi, in particolare nel settore del commercio. Per i conti pubblici, i rinnovi contrattuali dei dipendenti della Pa, compresi gli arretrati per i periodi di vacanza contrattuale, e la rivalutazione delle pensioni in essere, potrebbero comportare un onere superiore ai 30 miliardi di euro.
I ritardi dei rinnovi contrattuali che riguardano i lavoratori privati sono essenzialmente concentrati nei comparti dei servizi ad alta intensità di occupazione. Quelli che registrano storicamente un andamento stagnante della produttività e dei salari reali. Circa un terzo dei lavoratori dipendenti privati, 4,5 milioni, percepisce salari inferiori ai 12 mila euro lordi sulla base di una stima effettuata di recente dall’Inps. Circa 1,5 milioni, in particolare i lavoratori domestici e quelli dell’agricoltura per via delle basse retribuzioni contrattuali. Il rimanente per la riduzione del numero delle ore medie lavorate dovuto ai contratti a termine e a part-time involontario. Per l’insieme di queste attività sull’andamento dei salari ufficiali pesa in negativo la rilevante quota delle prestazioni lavorative sommerse.
Per offrire una risposta a queste tendenze, una parte significativa delle forze politiche è orientata a proporre soluzioni che fanno leva su ulteriori interventi legislativi (la definizione di un salario orario minimo legale, e la riduzione degli ambiti di utilizzo dei contratti a tempo determinato). Le proposte in campo oscillano tra la definizione di un importo orario minimo (8-9 euro) e quella avanzata dal Ministro Orlando alle Confederazioni sindacali di vincolare tutte le imprese, anche quelle non aderenti alle associazioni firmatarie dei contratti, all’applicazione dei trattamenti economici non inferiori quelli previsti dai principali contratti collettivi nazionali di settore sottoscritti dalle rappresentanze datoriali e sindacali maggiormente rappresentative.
Nei tempi recenti abbiamo avuto modo di commentare queste proposte che comportano, in particolare la prima, il rischio di indebolire l’impianto giuridico basato sulla attuazione dell’articolo 36 della Costituzione che ha consentito storicamente di estendere l’applicazione dei contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali più rappresentative a oltre il 90% dei lavoratori dipendenti. Un risultato che viene considerato come il punto di forza del sistema italiano di tutele dei lavoratori nelle indagini istruttorie svolte dalla Commissione europea per la redazione della proposta di direttiva per il salario minimo.
Nel dibattito italiano in materia di politiche salariali si è innescata la singolare convinzione che i livelli salariali possano prescindere dagli indicatori della crescita economica e della produttività, fino a riproporre in via di fatto la tesi del salario come variabile indipendente.
In assenza di un valore aggiunto da redistribuire, questa condizione può essere ottenuta solo con un’ulteriore iniezione di risorse pubbliche a sostegno dei salari, senza le quali aumentano i rischi di un’ulteriore espansione della quota di lavoro sommerso. Cosa pressoché scontata per il lavoro agricolo e per quello domestico che vengono presi ad esempio per dimostrare la necessità di introdurre un salario minimo legale.
La scorciatoia del salario minimo legale evita di fare i conti con le vere cause di una stagnazione dei salari derivante da quella della produttività. Frutto del sottoutilizzo delle tecnologie, delle innovazioni disponibili, delle competenze delle risorse umane. Condizioni che l’insieme dei provvedimenti pubblici adottati nel corso degli ultimi 10 anni (oltre 100 miliardi di euro per sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato, i bonus Renzi, l’introduzione periodica di nuovi vincoli per limitare l’utilizzo dei contratti a termine) non sono riuscite a scalfire. Nonostante i fallimenti, queste continuano a essere le terapie che vengono riproposte per curare la malattia.
In questo contesto non stupisce affatto che il tema di come favorire una crescita della produttività e dei salari collegati ai risultati sia finito ai margini del confronto. Eppure dovrebbe essere evidente a tutti che l’invocata transizione digitale e ambientale dell’economia italiana presuppone un aumento del tasso degli investimenti e della produttività, l’adeguamento delle organizzazioni produttive e delle competenze dei lavoratori. Temi che dovrebbero diventare l’oggetto centrale dei modelli di contrattazione che privilegiano l’azienda e il territorio come sedi di confronto e di intese.
L’assenza di un’analisi condivisa esalta le polemiche inconcludenti e il ruolo dei professionisti della denuncia, ma priva le rappresentanze sociali della capacità di offrire risposte concrete ai problemi.
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