Articolo di Natale Forlani, pubblicato il 26 settembre 2026 su “Il Sussidiario.net”.
Non solo il trattato di Dublino: anche i propositi di riformarlo sono frutto di una lettura inadeguata dei fenomeni migratori. Serve una “offerta” comune dei paesi Ue.
Non usa mezzi termini il nostro presidente della Repubblica quando assimila il trattato europeo di Dublino a un’intesa frutto della preistoria delle politiche per l’immigrazione. In effetti il “sistema di Dublino”, come definito nell’ultimo regolamento approvato nel 2013, trae origine da una prima convenzione sottoscritta da dodici Paesi europei nel 1990. Un accordo entrato in vigore sette anni dopo con l’obiettivo di offrire un’interpretazione condivisa nell’ambito continentale della convenzione internazionale di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati, dei criteri per la loro identificazione, per il rilascio dei permessi di soggiorno, per le obbligazioni poste in capo al Paese di prima accoglienza e le condizioni per il trasferimento negli altri Paesi aderenti.
Giova ricordare che questa scelta, oltre a riscontrare l’adesione anche dei Paesi europei non aderenti all’Unione, ha offerto un grande contributo per la governabilità dell’ingresso dei cittadini dei Paesi dell’Est Europa in seguito alla caduta del muro di Berlino e per le condizioni dell’allargamento delle adesioni alla Ue. La convenzione è stata successivamente implementata dai trattati di Dublino del 2003 e del 2013 e da numerose direttive europee rivolte a disciplinare i diritti sociali dei migranti e dei loro familiari, a promuovere nuove forme di coordinamento per la gestione delle informazioni, dell’accoglienza dei migranti e per il contrasto dei flussi d’ingresso irregolari.
Un’evoluzione che ha comunque preservato la responsabilità dei singoli Stati aderenti in materia di programmazione e gestione delle varie tipologie dei flussi migratori di origine extracomunitaria. Queste scelte vanno quindi collocate nell’ambito di quella più generale, e rivoluzionaria, di consolidare la libera circolazione delle persone, che rimane la condizione indispensabile per qualsiasi evoluzione delle istituzioni europee.
Fatta questa doverosa premessa, resta da comprendere cosa ci sia di antistorico nel cosiddetto sistema di Dublino. Nella vulgata corrente il carattere antistorico viene associato all’attribuzione dell’obbligo per i Paesi di prima accoglienza di ricevere gli immigrati irregolari, identificare i profughi sulla base dei requisiti stabiliti, rilasciare i permessi di soggiorno per chi ne ha diritto, rimpatriare i migranti senza requisiti nei Paesi di origine.
Queste discussioni si trascinano da almeno dieci anni, a partire dagli eventi della primavera araba, che hanno alimentato la prima grande ondata di arrivi nel corso degli anni 2000. Ma risultano sempre più lontane da una corretta lettura dei nuovi fenomeni migratori, in particolare di quelli provenienti dal continente africano. La destabilizzazione politica della gran parte dei Paesi del Nord e del Centro Africa (con otto colpi di Stato nell’area sud sahariana e nel Corno d’Africa negli ultimi 18 mesi) ha favorito e alimentato le partenze e i transiti di circa l’80% dei flussi migratori irregolari, fornendo canali d’ingresso anche per quelli provenienti dall’Asia. In pratica si è sostanzialmente azzerata qualsiasi possibilità, peraltro già difficile, di ricostruire nel breve periodo delle intese con questi Paesi d’origine per il controllo delle tratte e per il rimpatrio dei migranti irregolari.
Buona parte dei nuovi governanti risulta palesemente ostile verso i Paesi occidentali. Sono il frutto dei mutamenti degli equilibri politici ed economici che hanno consentito un ampliamento della sfera di influenza economica e politica della Cina in Africa, senza trascurare l’apporto dei mercenari russi della Wagner al successo di alcuni colpi di Stato nei Paesi centroafricani. Come sottolineato in modo lucido dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti in una recente intervista sul Quotidiano Nazionale, sono la conferma del filo rosso che lega l’evoluzione della guerra in Ucraina con gli eventi nel continente africano. La gestione delle tratte dei migranti non è estranea a queste dinamiche. Oltre a finanziare i trafficanti collusi con i poteri locali, concorrono a destabilizzare le relazioni tra i Paesi europei e i livelli di consenso interno dei governi nazionali.
Gran parte dei migranti sono e continueranno ad essere di natura economica, motivata dalla scarsità delle opportunità di lavoro locali rispetto alle aspettative delle giovani generazioni che hanno livelli di formazione e aspettative più elevate rispetto al passato. Provengono da Paesi che hanno un reddito medio superiore ai 3mila euro annui, tale da poter finanziare i progetti migratori che comportano oneri consistenti e solvibilità solo con una mobilitazione dei risparmi da parte delle famiglie. Fattori che tendono a selezionare questi flussi migratori da quelli delle persone estremamente povere, che si trasferiscono dalle aree interessate da conflitti bellici e persecuzioni verso i territori limitrofi.
Le aspettative dei migranti irregolari sono alimentate dalle opportunità di lavoro e di accesso alle prestazioni sociali offerte dai Paesi europei e dalla presenza consolidata delle comunità d’origine che possono agevolare i loro percorsi di integrazione. Questi fenomeni non sono contrastabili in assenza di una comune valutazione della questione africana, delle implicazioni derivanti dal mutamento degli equilibri geopolitici ed economici mondiali, della necessità di mettere in campo una politica estera e di cooperazione in grado di valorizzare la massa critica delle risorse finanziarie, produttive, formative dei Paesi europei per offrire una diversa prospettiva alle giovani generazioni africane.
L’attrazione di numerosi Paesi africani con governi autoritari nella sfera dell’influenza economica cinese consente loro di depistare l’attenzione verso i problemi interni e di alzare il tiro delle pretese verso i Paesi occidentali ex colonialisti. L’ipotesi di costruire un piano Mattei per sostenere lo sviluppo economico e sociale dei Paesi africani deve fare i conti con queste novità.
Ma, nonostante ciò, le giovani generazioni africane continuano a intravedere nell’Europa le aspettative di una vita migliore. Una prospettiva che incontra con l’esigenza di soddisfare nuovi fabbisogni di risorse umane qualificate nella stragrande parte dei Paesi europei. Per supplire, almeno in parte, alla riduzione in atto della popolazione in età di lavoro. Per la parte delle politiche dell’immigrazione la chiave di volta è rappresentata dalla capacità di costruire a livello europeo una massa critica di Paesi disponibili a mettere in comune i fabbisogni professionali da veicolare nelle intese con i Paesi di origine, complementari all’impegno reciproco di contrastare i flussi migratori illegali.
Qualcosa di diverso, e di più solido, dei propositi di riformare il trattato di Dublino per redistribuire i migranti anche a prescindere dal preventivo accertamento dei requisiti di protezione internazionale. Tema mal riposto e destinato solo a rinvigorire le polemiche interne tra i Paesi europei. Senza una visione comune la capacità dell’Unione Europea di influenzare le vicende africane si riduce al lumicino.
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