Dall’assemblea di Confindustria è emersa la proposta di un Patto per l’Italia. Che rischia di non funzionare per rilanciare il Paese
La proposta di un Patto per l’Italia avanzata dal Presidente della Confindustria Bonomi e rilanciata con autorevolezza dal presidente del Consiglio Draghi nel corso dell’assemblea annuale della Confindustria, evoca i fasti della stagione della politica dei redditi del Governo Ciampi del 2003, e del ruolo di supplenza svolto dalle parti sociali nel corso della drammatica crisi dei partiti della Prima repubblica.
L’accordo sulla scala mobile e la riforma del sistema della contrattazione collettiva ha svolto un ruolo decisivo contrastare l’inflazione galoppante e per mantenere l’Italia nei binari del Trattato di Maastricht appena sottoscritto e della successiva adesione alla moneta unica. Ma le analogie con quel periodo sono fuori luogo. Le aspettative delle riforme finalizzate a rendere competitivo il sistema produttivo, e per modernizzare le prestazioni sociali e il mercato del lavoro, sono state in buona parte disattese.
Il vincolo esterno, derivante dagli adempimenti sottoscritti con l’Ue per utilizzare le risorse europee del Pnrr, si sta riproponendo, e diventerà più stringente con il ripristino delle regole del Patto di stabilità. Anche nell’auspicata ipotesi che queste ultime vengano riformate per consentire tempi più lunghi per il rientro dei debiti pubblici dei singoli Stati aderenti. Ma le parti sociali oggi sono profondamente cambiate. Indebolite dalle fratture che hanno separato le dinamiche della finanza, del sistema delle imprese e del mercato del lavoro nel corso negli anni 2000 e dai condizionamenti generati dalle variabili competitive esterne. Queste hanno favorito in molti ambiti aziendali livelli avanzati di coinvolgimento delle rappresentanze del lavoro, ma indebolito la capacità di rappresentare in generale le imprese e i segmenti del mercato del lavoro più esposti alle riorganizzazioni delle attività produttive.
Queste contraddizioni sono diventate il brodo di cultura delle derive populiste delle forze politiche, delle rivendicazioni più demagogiche e prive di ragionevolezza provocando un effetto di spiazzamento anche per le organizzazioni sindacali più radicali.
L’insediamento del Governo Draghi rappresenta una risposta al fallimento di queste politiche in termini di governabilità, ma il frutto avvelenato del populismo e la stagione delle rivendicazioni che non fanno i conti con la realtà sono tutt’altro che esauriti. Persino galvanizzati dal retroterra di aiuti erogati dallo Stato nel corso della pandemia che ha alimentato una stagione di rivendicazioni corporative che non ha precedenti.
La governabilità futura dipende dalla formazione di un blocco politico di forze politiche in grado di ereditare l’esperienza del gGverno Draghi. Un tema brillantemente sviluppato da Panebianco nel recente editoriale pubblicato sul Corriere della Sera.
La governance dipende dalla capacità di far concorrere alla realizzazione degli obiettivi non solo le istituzioni competenti, ma anche gli attori dell’economia e le rappresentanze sociali sulla base dei ruoli svolti nella società. Con l’esplicitazione di un ruolo partecipativo e contributivo sulla base di risorse e competenze da aggregare, e non per avallare la pretesa delle rappresentanze sociali di condizionare l’utilizzo delle risorse pubbliche per difendere interessi di parte.
La ripresa economica è palesemente squilibrata sul versante delle attività produttive e del mercato del lavoro. Per renderla più inclusiva diventa necessario modificare in profondità la gestione dei fattori produttivi di molti comparti dei servizi che convivono con una bassa produttività dei fattori e con quote rilevanti di lavoro sommerso. La transizione ecologica e digitale non può essere concepita come un processo calato dall’alto su una realtà che manifesta problemi di ricambio imprenditoriale e di adeguamento delle risorse umane.
Allo stato attuale l’atteggiamento delle rappresentanze imprenditoriali e sindacali oscilla tra l’aspettativa fideistica nei progressi tecnologici e la rigorosa difesa dell’esistente come se fosse il migliore dei mondi possibili. Il paradosso di una ripresa economica con le imprese che non trovano più di un terzo dei lavoratori richiesti dovrebbe allertare tutti sulla necessità di adottare rimedi in grado di produrre effetti nel breve e nel medio periodo. Con la ripresa dei contratti a termine, largamente prevedibile dato che era la modalità dei contratti più penalizzata dalle misure del lockdown, immediatamente è ripartita la polemica sul precariato e sulla necessità di aumentare i salari minimi. Rispetto al periodo precedente Covid mancano all’appello 650mila posti di lavoro, ma questo particolare non sembra destare molta attenzione.
Davvero non si riesce a comprendere il perché i fabbisogni delle imprese e l’adeguamento delle competenze dei lavoratori, buona parte dei quali è destinata a cambiare occupazione, non diventino il tema sul quale le rappresentanze del mondo del lavoro impongono un cambiamento del comportamento delle istituzioni, del sistema formativo e dei modelli di welfare finalizzati a sostenere l’aumento del tasso di occupazione. Innovando i modelli di contrattazione possono: favorire un percorso di crescita della produttività e dei salari; agevolare le assunzioni dei lavoratori che hanno perso il lavoro con contratti di inserimento combinati con percorsi di formazione personalizzati; potenziare i percorsi di alternanza scuola lavoro generalizzando, ad esempio, l’utilizzo dell’apprendistato professionalizzante; favorire un utilizzo dello smart working per alleviare i carichi familiari.
Hanno a disposizione i fondi interprofessionali per adeguare le competenze dei lavoratori, quelli di solidarietà per accompagnare le ristrutturazioni aziendali. D’intesa con le istituzioni locali potrebbero promuovere la messa in trasparenza dei fabbisogni delle imprese e le liste di disponibilità delle persone in cerca di lavoro, beneficiari di sostegno al reddito compresi, per far incontrare la domanda e offerta e contrastare il lavoro sommerso.
Cose ben diverse dal rivendicare una riforma degli ammortizzatori sociali che aggiunge le casse integrazioni alle indennità di disoccupazione per l’universo mondo, il sostanziale consolidamento dell’età di pensionamento anticipata della Quota 100, ovvero affidare la risoluzione dei problemi del mercato del lavoro al potenziamento dei servizi pubblici per l’impiego.
Nessun Paese europeo ha introdotto il blocco dei licenziamenti per difendere l’occupazione, utilizza in via ordinaria le casse integrazioni per far fronte alle chiusure aziendali, propone sanzioni per le aziende che delocalizzano la produzione, pensa di risolvere i problemi strutturali imponendo le quote per le assunzioni di giovani, donne, anziani, lavoratori a termine. Eppure le comparazioni non dicono affatto che stiano peggio di noi… anzi!
Parti sociali, se ci siete battete un colpo. Se non ora, quando?