Articolo di Giovanni Luciano – 2 dicembre 2020
L’emergenza epidemiologica ha posto in evidenza una serie di fragilità strutturali del Paese, tra le quali non è stata irrilevante quella del trasporto pubblico locale (Tpl).
Una fragilità che è stata amplificata soprattutto intorno al 15 settembre 2020, quando molte Regioni hanno riaperto le scuole e, in contemporanea, almeno il 50% dei dipendenti pubblici sono tornati a svolgere la propria prestazione in ufficio, dopo diversi mesi di lavoro da casa.
Era evidente a chiunque avesse mai usato un autobus, un tram o una metropolitana, che la riduzione di posti occupabili sui mezzi non sarebbe certo stata una misura utile per limitarne l’affollamento, semplicemente perché è impossibile da rispettare in situazioni che, già prima della pandemia, soffrivano di affollamento dei mezzi e di scarsità di corse. Infatti, la situazione è apparsa presto difficile.
Era ovvio che succedesse perché, soprattutto in diverse realtà, Roma in primis, il Tpl soffriva già di mali datati.
Già prima del Covid-19 c’era bisogno di una profonda rivisitazione del settore. Oggi, dopo quello che è successo e con la possibilità di usare quota parte del Recovery Fund, ci sarebbe l’occasione per una profonda rivisitazione strutturale del Tpl, che andrebbe impostato innanzitutto come un sistema, integrato e sinergico tra le varie modalità di trasporto, perché oggi, invece, ognuno va per conto proprio.
La condicio sine qua non per avere i fondi comunitari è quella di presentare dei progetti circostanziati e sostenibili.
Quindi, quale dovrebbero essere le coordinate di un progetto da presentare a livello europeo, di respiro nazionale per la ristrutturazione di un servizio che è locale? Per declinare tali coordinate non si può eludere un’analisi, seppur sommaria, su cosa non abbia funzionato da quando c’è stata l’ultima vera riforma del Tpl, cioè il D.lgs 19 novembre 1997 n. 422e s.m.i. – Conferimento alle regioni ed agli enti locali di funzioni e compiti in materia di trasporto pubblico locale, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59 – Norma che ha delegato alle Regioni i compiti di programmazione del servizio includendovi anche quelli su ferrovia, compresi quelli dell’allora FS oltre che i servizi lacuali e lagunari e marittimi e aerei, di interesse locale.
Quella riforma, essenzialmente tramite il trasferimento della delega più vicino al territorio, ha tentato, invano di: – inserire prodromi di una industrializzazione del settore, tramite uno stimolo al raggiungimento di un minimo di redditività “…del rapporto tra ricavi da traffico e costi operativi, rapporto che, al netto dei costi di infrastruttura, dovrà essere pari almeno allo 0,35 a partire dal 1 gennaio 2000.”; – di introdurre stimoli di miglioramento della qualità, con la previsione dell’affidamento del servizio tramite contratti (contratti di servizio) della durata di nove anni attraverso procedure concorsuali; – di “costringere” ad una migliore programmazione che tenesse conto della integrazione modale del servizio per la redazione dei piani dei servizi minimi e dell’aumento degli introiti attraverso l’aumento delle unità trasportate.
Dopo 23 anni e una serie di tentativi successivi dello Stato, con un’altra serie di norme, di spingere sui concetti macro elencati, essenzialmente basati: – sulla riduzione della quota di risorse di competenza, proveniente dal Fondo Nazionale per il concorso finanziario dello Stato agli oneri del trasporto pubblico locale, a carico delle Regioni che non avessero affidato il servizio tramite gara; – sulla introduzione del concetto di costi standard. la situazione non ha avuto complessivi miglioramenti, tranne rare eccezioni in pochissime Regioni o Città.
Le riforme nazionali sono state poco o per niente realizzate dalle Regioni, spesso grazie ai numerosi ricorsi di queste alla Corte Costituzionale che, immancabilmente, hanno visto soccombente lo Stato centrale.
I motivi di questo insuccesso sono da ricercare nella forte resistenza di molte Regioni ad introdurre meccanismi di riforma, previsti di volta in volta dallo Stato, tanto da preferire persino i tagli ai trasferimenti dal Fondo nazionale che procedere a riorganizzazioni e/o gare.
I costi standard sono rimasti una mera enunciazione. La resistenza non è stata solamente da parte degli EE.LL., ma individuabile in tutte quelle situazioni locali che tendono al conservatorismo, molte volte di parte datoriale e sindacale.
Spesso il trascinamento dello status quo è stato preferito a processi di riorganizzazione finalizzati a un servizio migliore, con più frequentazione e minori costi. Miglioramenti che non hanno molte probabilità di successo in un regime di assoluto monopolio.
Ciò ha consentito il perdurare di diseconomie, di distruzione di valore (soldi pubblici) e di livelli qualitativi del servizio molto spesso insoddisfacenti. Non giovano, infine: – le dimensioni troppo piccole delle aziende del Tpl (nanismo); – un parco rotabili insufficiente e di vetustà maggiore rispetto alla media europea; – la velocità commerciale dei mezzi pubblici troppo bassa rispetto alle condizioni della viabilità (vedi Roma come esempio); – il persistere dell’ingerenza dell’azionista pubblico (Regione-Provincia-Comune a seconda di chi è proprietario dell’azienda) nella gestione delle aziende stesse con input di carattere politico che spesso confliggono con esigenze di carattere economico-industriale.
Ovviamente la situazione descritta ha eccezioni e, a macchia di leopardo, rari casi di eccellenza. Cosa bisognerebbe fare per sostenere una progetto alla base della richiesta di finanziamenti comunitari? Innanzitutto decidere se poteri e risorse economiche stanno entrambi da una sola parte o meno. Si vuole il federalismo? Ok, allora poteri e soldi entrambi alle Regioni.
Non ha funzionato? Allora i poteri tornino al centro o, perlomeno, si affermi normativamente la supremazia dello Stato in caso di riforme votate in Parlamento.
Certo, come stanno le cose ora non può continuare a essere, SE si vogliono migliorare davvero le cose.
Nel frattempo, comunque, trovare una composizione al perenne conflitto di competenza tra lo Stato e le Regioni, tramite un ventaglio di azioni tese al miglioramento che deve passare sicuramente dal aumento e dal rinnovo del parco rotabili con mezzi ecologici e da una massiccia dose di assunzione di personale di bordo senza dimenticare quello dedicato alla manutenzione. Il tutto, però, basato su una seria e rigorosa applicazione di misure quali quelle esemplificativamente elencate di seguito: – vincoli ai finanziamenti legati all’effettività dell’applicazione dei costi standard; – incentivi alle aggregazioni aziendali, con premi maggiori nel caso di azionariato misto pubblico-privato o Associazione Temporanee di Imprese miste pubblico privato; – finanziamenti premiali legati al raggiungimento di parametri, misurabili e accertabili, sull’aumento del load factor, della puntualità, del comfort, della frequenza delle corse, ecc. – effettività dei poteri di sostituzione dello Stato previsti dalle norme in caso di inerzia delle Regioni e, a cascata di queste su Province e Comuni.
Infine, non meno importante, è fondamentale incentivare la ricostruzione di una filiera industriale che produca in Italia gli autobus e i treni metropolitani con mezzi di nuova generazione tramite finanziamenti finalizzati ad allargare l’attuale presenza mista pubblica privata (oggi, in pratica solo I.I.A. che produce molto in Turchia) con vincoli che impediscano la delocalizzazione della produzione. Insomma, occorrerebbe sfruttare l’eccezionalità della situazione di crisi da pandemia per sviluppare un settore che è vitale per i cittadini.
Si! Ci vuole proprio un Recovery Transport Fund! Giovanni Luciano
FONTE: https://luciano1958.blogspot.com/2020/12/recovery-transport-fund.html