Articolo di Pietro Giubilo – pubblicato il 24 febbraio 2022 sul sito web della “Fondazione Italiana Europa Popolare”
In fondo a questi lunghi anni, dovrebbe nascere una domanda: cosa ne è dell’Italia dopo quegli anni ?
Scorrono lacrime di coccodrillo. Vittorio Feltri e Goffredo Buccini su Tangentopoli ci ripensano. Ovvero il primo chiede scusa per “aver inzuppato il biscotto” creando il caso di Chiesa dal quale partì tutto, il secondo che firmò l’articolo sull’avviso di garanzia a Berlusconi nel 1994 raggiungendolo ad un convegno internazionale sulla criminalità organizzata, in una intervista a Tempi, arriva ad affermare che “quella certa idea di giustizia era una menzogna”. Cosa sta succedendo? Niente di particolarmente nuovo rispetto, invece, alla necessità di un giudizio che ormai dovrebbe chiarire il senso e fornire un bilancio complessivo di quella “rivoluzione dei giudici” che abbattè la prima repubblica e la stessa base della sua “costituzione materiale”: leader, partiti, realtà economiche, tutto compreso. A parte un fumus mai chiarito di un intreccio o di una logica che collegò quelle vicende ad un quadro internazionale che mutava – non si era ancora posata la polvere del crollo del muro di Berlino – un “non detto” mai dimostrato né dimostrabile, non si va oltre la descrizione degli “abusi” e dei “drammi”, di “eccessi” e di “insuccessi”, insomma una riscrittura delle cronache di allora, un revisionismo giornalistico, niente di più. Dopo trent’anni a cosa serve tutto ciò? Forse a guardare in modo diverso fatti e uomini di allora: provare imbarazzo per aver istigato il lancio delle monetine ad un grande leader politico, Bettino Craxi, che, diversamente dovrebbe essere giudicato e che, con fiera dignità, morì lontano dall’Italia; commuoversi, finalmente, per i suicidi, quello di Sergio Moroni in testa, ma anche di Gabriele Cagliari e Raul Gardini e purtroppo di altri meno noti; mostrare sorpresa per le statistiche che evidenziano l’alto numero degli insuccessi delle inchieste con le tante assoluzioni; riflettere sul fallimento di una “rivoluzione morale” che non ha annullato la corruzione che, diabolicamente di trasforma e si riproduce. E tanto altro.
Una congerie di elementi che vengono letti con curiosità, senza il coraggio di una ulteriore riflessione, ma con una ottica un po’ gattopardesca e un po’ tartufesca. In fondo a questi lunghi anni, dovrebbe, invece, nascere una domanda: cosa ne è dell’Italia dopo quegli anni ? Cosa è rimasto della sua rappresentanza politica, della sua tenuta sociale, del suo ruolo nel mondo, della sua politica economica e di quel mix pubblico-privato che fornì le leve progettuali della sua crescita? Che cosa rimane dopo quella stagione di invettive e di concioni sgrammaticati di alcuni suoi protagonisti, della necessità di una coesione nazionale, di una coscienza della propria storia, del percorso mai compiuto per una democrazia dell’alternanza, come condizione nella quale tutti si ritrovino nelle istituzioni, nel bene comune, nella solidarietà, per far parte di una comunità unita ? Che ne è di quel suo ancor più lontano “primato” posseduto e ricercato? Dopo trenta anni queste sono le domande da farsi rispetto ad un evento che molto distrusse e poco o nulla costruì. E se certamente la ricostruzione doveva vedere protagonisti diversi rispetto ai distruttori, cioè i politici e non i giudici, la questione non muta, perché gran parte di ciò che oggi ci ritroviamo davanti sono ancora le macerie e soprattutto gli effetti, non solo delle inchieste, ma del clima culturale e politico, sociale e comunicativo di quegli anni, a seguito dell’arrendevolezza di alte istituzioni e/o di precise scelte, di prese di posizione, di affiancamento – spesso strumentale, interessato e miope – all’opera dei giudici, per il risultato a cui si pervenne, cioè di cancellare una esperienza storica, con il trionfale utilizzo, come bandiera ante litteram, dello slogan della epidemia del Covid: “nulla sarà come prima”. Dopo aver fatto tabula rasa e, come si dice, “aver gettato l’acqua sporca con tutto il bambino”, dunque, cosa resta dell’Italia?
Cosa c’è ancora nelle istituzioni e nella opinione del Paese delle culture politiche risorgimentali, di quelle del solidarismo sociale cattolico, del vero socialismo democratico o dello stesso comunismo, se non altro come retaggio di un fermento politico, di una Italia il cui patrimonio identitario affonda le radici nella sua storia esemplare, con un segno universale? E della capacità manageriale pubblica e della sua cultura che univa valori e progetti (le autostrade furono solo una striscia di asfalto?) e che preferiva il volontarismo alla mera economia naturale, una sorta di modello italiano dell’economia sociale di mercato? E del fervore partecipativo che animava le strutture territoriali delle due “chiese politiche”, la Dc e il PCI, sulle quali scorsero fiumi di inchiostro nelle ricerche del “Mulino”? E della sua politica estera che ci consentiva di non assecondare i messaggi britannici per fermare Enrico Mattei a caccia di opportunità energetiche per il Paese o, a Sigonella, di tenere testa a chi ci chiedeva di arrestare i mediatori che l’Italia aveva saputo mettere in campo per le sue relazioni con gli esponenti mediorientali o con Aldo Moro, nel rispetto delle alleanze, di costruire il clima della distensione in Europa, tra le diffidenze di autorevoli segretari di Stato americani? Certo queste e tante altre domande che potremmo porci, possono giustamente, essere scetticamente accolte come passatiste. Ed è vero. Ma il problema non è questo, perché il passato è passato e non ritorna, il problema è che non possiamo non ricordare il lontano in quanto, per troppi versi, abbiamo davanti un deserto culturale e politico: forze politiche senza radici culturali; una debolezza istituzionale che ferisce soprattutto il Parlamento; una evidente crisi della magistratura, anch’essa vittima dei suoi giochi di potere, sfiduciata dai cittadini; una sempre più ampia rinuncia al voto; una pallida politica estera che ci ha visto subire assi in Europa e che forse oggi ci potrebbe vedere affidato un ruolo, ma in concessione. E c’è dell’altro.
Siamo arrivati a creare un clima di scontro ideologico su provvedimenti utili per vaccinare ma anche di controllo sociale, indifferenti al dramma di chi preferisce perdere il lavoro (Dc, Pci, Psi lo avrebbero consentito?) piuttosto che sottostare a regole che sono andate oltre il sanitario; vediamo ciò che è pubblico slittare su un assistenzialismo esasperato che brucia risorse per bonus famelicamente inseguiti e per alimentare un non lavoro retribuito che fa il parallelo a quello dei giovani schiavizzati dal precariato anche internazionale; assistiamo con rassegnazione al declino dei corpi intermedi che scompaiono (che ne è dei sindacati e del loro essere promotori di riforme?) o vivono in condizioni critiche come le famiglie, la decimazione delle realtà operose delle piccole imprese, l’associazionismo spento che non crea relazioni, ma viaggia sulla comunicazione; una tradizione insidiata dalla moda della cancel culture accolta e vezzeggiata da tutti i più squallidi progressismi. A Yale si elimina lo studio del Rinascimento italiano. E ci sarebbe molto altro da dire. C’è al fondo una questione di libertà. Ecco, dopo trenta anni siamo meno liberi. Un intellettuale serio come Luca Ricolfi ha scritto un “manifesto del libero pensiero” che comincia con una denuncia che non possiamo far finta di ignorare: “Una grande cappa aleggia sopra di noi. E’ un opprimente clima, fatto di censura e intimidazione, che sovrasta ogni nostra parola e pensiero, con imposizioni e divieti più o meno velati su che cosa è bene dire e pensare”. Tutto ciò è riferibile a tangentopoli ? Certamente no, ma aumenta la consapevolezza che da quei giorni, mesi ed anni di quella falsa rivoluzione, abbiamo dissipato risorse fondamentali, subìto montagne di falsità, messo in campo scarti di magazzino sociale e politico e ci siamo accontentati di ciò che veniva fuori sull’onda dell’odio e dell’invidia. Ci siamo illusi di esserci liberati del male, incamminandoci, ciecamente, per sentieri sconosciuti e franosi. Se tutto questo è ingiusto attribuirlo a tangentopoli, purtuttavia in tempi di bilanci e di anniversari è doveroso guardarsi dentro e fuori, sull’oggi e sullo ieri, fino, appunto, a ciò che avvenne trenta anni fa. Per trovare una strada nuova avendo veramente sgomberato la via dai detriti dei falsi miti di allora e di oggi.
FONTE: www.eupop.it